LEO DORMIENS*

Piove, e la Serenissima siede alla finestra ascoltando il debole sciabordio del Canal Grande quando un battello notturno attracca gorgogliando con un tonfo all’imbarcadero di Rialto; finalmente spoglia delle vesti sontuose da cortigiana con cui si mostra alle folle del giorno, rimane in sottoveste offrendo la vista del proprio logorio e decadenza. Il primo istinto può forse essere quello di indietreggiare storcendo il naso di fronte a un tale contrasto con la Venezia dei carnevali e dei dipinti del Canaletto ma, se si resiste all’impulso di distogliere lo sguardo dal suo declino e le si va incontro di qualche passo, ci si accorgerà subito della dignità e del fascino con cui questa antica rosa stia inesorabilmente avvizzendo.

  C’è una bellezza tenera in Campo San Giacomo dell’Orio deserto, con le luci di un albero di Natale stilizzato che si riflettono sulla pavimentazione bagnata colorata con i gessetti dai bambini del vicinato. Il silente abbandono di Campo San Silvestro, illuminato quasi solo dalla luce dorata delle finestre della chiesa dove si attua l’Adorazione Perpetua, si colora di tinte goliardiche nel sotoportego che si affaccia alla Riva del Vin sul Canal Grande, dove tra le locandine e i manifesti laceri che sventolano alla brezza notturna qualche buontempone decreta il modo più succulento di cuocere il coniglio arrosto. E ancora, come non restare colpiti dall’inaspettata assenza di attività ai piedi della selva di snelle colonne di pietra del Mercato del Pesce di Rialto, che si ergono eleganti e slanciate nell’aria salmastra che profuma indelebilmente di pesce fresco? Laddove di giorno la gente si accalca e grida ora resta solo spazio vuoto, lo zampettìo di un gabbiano insonne e l’eterno zampillare di una fontanella d’acqua dolce sotto un lampione.

Gli amanti dei film di Sorrentino, e non solo loro, apprezzeranno sicuramente l’idea di passeggiare per una Piazza San Marco bagnata e vuota di persone e piccioni, affacciandosi dal portico della Biblioteca Marciana per ammirare le delicate architetture di pizzo e merletto della Basilica di San Marco e del Palazzo Ducale soffusamente illuminati di oro e rosa mentre la punta del campanile si perde nelle tenebre nebbiose del cielo notturno.

Appena svoltato l’angolo, le Procuratorie e il Museo Correr fanno sfilare in un solo colpo d’occhio il loro doppio ordine di lanterne dalla geometria rigorosa. Quasi fosse una creatura viva e senziente la Piazza non ha mai rinunciato alla propria funzione rappresentativa di cuore pulsante della città, sopravvivendo alla caduta della Serenissima Repubblica Veneta; se da un lato festeggia il Natale e il Carnevale ammantando di luci dorate le volte e le colonne annerite sotto cui si celano gli storici locali del Florian e del Quadri, dall’altro denuncia lo scandaloso passaggio delle navi da crociera in Canal della Giudecca mascherando sé stessa da transatlantico sfruttando i riflessi sulla pioggia che allaga la piazza per accecare il passante osservatore.

Questi non può che allontanarsi frastornato passando sotto la Torre dell’Orologio, da cui partono le passerelle che consentono di attraversare la piazza antistante la Basilica in caso di acqua alta, e rituffarsi nel dedalo delle calli e dei rii debolmente illuminati: il Rio della Fava, nascosto dietro alle Poste Centrali da cui si scorge oltre alle briciole di legno il ponte del campo della Chiesa della Fava; il Rio del Megio con il suo ponte sbieco illuminato quasi esclusivamente dalla lanterna della trattoria ai suoi piedi; il Rio de San Zan Degolà, oscuro e buio che va a perdersi chissà dove in direzione del Canal Grande.

Infine, proprio quando ci si è arresi alla malinconica bellezza della Venezia minore di mattoni sbeccati, ma segni bagnati e lampioni che illuminano debolmente la pioggia e la nebbia salmastra, la Serenissima ci sorprende sorniona con improvviso spirito pop: l’illuminazione della vetrina di un negozio di rubinetti che tinge di inaspettato e frizzante violetto la placida Lista Vecchia dei Bari.

*servizio realizzato nel novembre 2020 per la Rivista Riflessi Magazine; testo di Caterina Chiarcos.

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